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Nel corpo della tradizione

[…] “La simbologia della decapitazione, con la sua connotazione d’angoscia, di sofferenza, ma anche di liberazione ( i martiri non temevano le torture e la morte) pervade profondamente la cultura popolare del Sud. Essa era il perno della festa di san Giovanni Battista, festa a lungo osteggiata dalla Chiesa, quando si raccontava, come in Abruzzo, che la testa mozzata e sanguinolenta del santo si mostrasse all’alba nel disco solare, oppure che in quella notte due figure femminili attraversassero il cielo su una trave di fuoco: si trattava di Erodiade e Salomè, le due donne responsabili della decollazione di san Giovanni, che a Procida, vengono riplasmate con in nomi di Giuditta e Giovanna, la seconda per semplice assimilazione con il Battista, la prima per sincretismo con il personaggio protagonista del biblico episodio della decapitazione di Oloferne, diffuso in Campania sia nelle sacre rappresentazioni, sia nei “fogli volanti” dei cantastorie, a testimonianza della pregnanza simbolica del gesto. Stessa simbologia è riscontrabile in alcune danze popolari, in primis, ovviamente quelle “delle spade”. Il tutto, come è evidente, ben lontano da quell’immagine di “cordialità” e di “paciosità” dei santi che viene fuori quando si nega il fondo “tremendo e fascinoso” della cultura popolare meridionale. […] In alcuni casi, dopo la decollazione, il santo continua a muoversi con assoluta disinvoltura, come Procolo che, dopo l’esecuzione si rialzò miracolosamente e con la testa tra le mani si avviò al luogo dove voleva essere sepolto”: si tratta dei cosiddetti “santi cefalofori” ( “cioè portatori di testa” ), tra cui rientra anche il già citato Donnino di Fidenza.
Particolare importante è la raccolta del sangue del martire, ritenuto dal popolo miracoloso e taumaturgico, come avviene con Pantaleone, Stefano, Antonino da Piacenza, Nazario e Celso, Cristoforo e, ovviamente, Gennaro. In altri casi, come in quello di Biagio, nel sangue vengono inzuppati i fazzoletti. Talvolta dal collo dei martiri esce latte oltre che sangue come avvenne per Pantaleone, il cui capo sarebbe stato immerso nel latte. Le virtù terapeutiche del sangue non erano però esclusive dei santi: anche il sangue dei gladiatori era usato per curare anemici ed epilettici. […]

[…] Che sia dipinto su tavoletta, che sia in metallo o in cera, che sia la riproduzione visiva dell’incidente per cui si è chiesta la grazia ( o della “morte violenta” cui si è scampati), che raffiguri l’arto o l’intero corpo malato, e che rappresenti o simboleggi quest’ultimo, l’ex voto è, sempre e comunque, simbolo del corpo del devoto. Nell’ex voto il corpo infranto si ricompone ma, soprattutto, si fonde con quello del suo doppio mitico, in un grembo chiuso e protettivo che accoglie entrambi. Con l’ex voto si riconosce e si è riconosciuti, si è finalmente affratellati in un legame di parentela simbolica. Sebbene spesso rimosso per motivi di spazio dal santuario esso è idealmente conservato lì per sempre, e il devoto torna periodicamente a visitarlo, inaugurando il tempo circolare della vita devozionale. Dei vari materiali che possono dare forma all’ex voto, la cera è senza dubbio quello più significativo dal punto di vista culturale. La cera, nota Marlène Albert-Llorca, “riveste nei rituali funerari il ruolo privilegiato che le sue caratteristiche le conferiscono. Essa emana un buon odore, e può, grazie a questa qualità essere offerta a Dio per i morti. Essa permette inoltre di misurare il passaggio del tempo” poiché “le veglie di una volta duravano il tempo che una candela impiegava a bruciare” e, soprattutto, bruciando appare come una “emanazione del corpo sofferente di Cristo (…) che si consuma.” […]


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Questi brani sono tratti dal libro di
GIOVANNI VACCA, NEL CORPO DELLA TRADIZIONE – Cultura popolare e modernità nel Mezzogiorno d’Italia - ED. SQUILIBRI, 2004



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